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autocertificazione (V.O.)

Autocertificazione 

Arrivai in paese con il vento
un figlio in grembo e accanto
mio marito agonizzante.

Mancanza d’aria fame disperazione,
dissero,
benché io rammentassi le lacrime di sale
e l’imprecazione nei miei occhi naufraghi:
Porco mare,
così calmo che vorrei sprofondare.

Non guardare indietro, disse lui, e poi: poi morì.
Chiusi gli occhi per non vedere.
Non te ne andare adesso, ti prego, non te ne andare.

Scesi sul molo e mi addentrai nella notte.
Era la primavera dell’anno duemilauno.
Vidi il fuoco della lanterna soffocarsi
e certi uomini che aspettavano in processione
che la porta d’oriente si spalancasse.
Però la città era stata chiusa per gli stranieri, Onorevole,
una volta per tutte, chiusa.
Sono riuscita ad avvicinarmi tre volte ai battenti,
tre volte, con la mia valigia colma d’attesa.

Il bimbo è nato morto, dissero loro, torni al suo paese.
Mi morsi le labbra:
anch’io sono morta, ahimè, anche io.

Ora, in cambio delle mie impronte
mi concedono la permanenza, Onorevole,
proprio a me, che non ho mai vissuto,
a me, che non ho corpo con cui prostituirmi.
Noi siamo cresciuti nella città dei fiumi fermi
Là, dove non ci sono ombre da lasciare.
Siamo stanchi di morire. L’ultima volta fu sei anni fa
sul mare, sotto il cielo d’un azzurro ignaro:
il cielo, deserto di stelle.

Ha i polpastrelli cancellati, come mai?
Chiusi i pugni sino ad infliggermi le dita:
solo unghie crescono dopo, solo unghie.

Dal molo ho potuto scorgere l’altra sponda, Onorevole,
Vorrei tanto raggiungere mio marito.
-Non aver ribrezzo se mio figlio si allatta
dal mio capezzolo asciutto.
C’è chi nasce vivo e chi nasce morto.
È tutto qui-
Io dichiaro di essere ufficialmente morta
nella primavera dell’anno duemilauno,
e non chiedo altro che un passaporto.

La prego, Onorevole,
me lo conceda:
Dio glielo pagherà.


Trieste, 9 febbraio 2006

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