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Sant'Anna ovvero i cimiteri


Aneddoto: A Trieste, nel palazzo dove James Joyce è andato a farsi ritrattare con sua moglie da un amico, si avvicinava il giorno dell'assemblea straordinaria nella quale si sarebbe discusso se mettere o meno l'ascensore. L'amministratore aveva convocato i condomini a recarsi nel suo ufficio. Chiese a uno di loro dove fosse la proprietaria Pelinco Veĉ e il vicino commosso disse che gli dispiaceva ma era a Sant'Anna. L'amministratore -che di sicuro non era triestino- decise di aspettare il suo rientro, intendendo che fosse in qualche casa di cura, il che non sarebbe stato strano se si pensa che Trieste è una città che vanta di avere il numero più alto di persone oltre la centinaia di anni. Aspettò qualche tempo ancora fino ad accorgersi che la signora non era in una casa di cura come lui aveva temuto ma era messa ancora peggio: era finita in cimitero, per i triestini, semplicemente, a Sant'Anna.

Sant'Anna come quasi tutte le necropoli è uno specchio della città. Infatti non è un cimitero bensì tanti quante sono le religioni e le comunità di questo crocevia di popoli. C'è il cimitero serbo, il militare, l'israelitico, il greco ortodosso (dove Zeno, il personaggio de Italo Svevo, andò a finire per sbaglio, inseguendo un funerale e credendo fosse quello del suo amico Guido), il cristiano, il maomettano, l'evangelico, l'anglicano, radunati tutti sulla collina di Sant'Anna nel 1825.

La prima cosa che si vede, appena si arriva al piazzale d'ingresso, sono le baracche dei fioristi, ognuna dipinta con un colore acceso e un nome di donna dipinto sul fronte. Compro due mazzi di fiori da Angela e la fiorista mi guarda curiosa, forse cercando di capire come mai una giovane straniera aveva dei morti così presto. Dopo guarda in giù il quaderno e il libro che porto in mano. Sorride, ha già capito che razza di visitatrice sono io. La saluto e attraverso l'ingresso principale senza fermarmi sul punto di informazione. Lungo il viale centrale, i soliti cipressi schierati nascondono i campi e le tombe. Cammino in mezzo. In fondo, nella parte più alta, a destra e a sinistra, si estendono i due colonnati. Sulla galleria a destra c'è la scultura di Bruno Fortuno, probabilmente un ragazzino molto sportivo come tanti a Trieste, ragazzi e non ragazzi. La scultura lo rappresenta coi calzoncini corti e una palla in mano. Mi chiedo perché sarà morto così presto, a tredici anni, e immagino la famiglia: il dolore. Una o due tombe più in là c'è un angelo in bilico su una croce. Sembra di star per cadere. Ha il sedere in sù, sporco dalle fecce delle colombe, in minoranza in confronto con i gatti e i gabbiani della città. Nel mentre arriva la famiglia di Bruno. Sono in due, una signora piegata in avanti e un signore baffuto e smilzo. Lui ha un secchio in mano, lei una scopa. Tutti i familiari possono essere riconosciuti perché portano un secchio dell'Acegas, la compagnia dei servizi funebri (oltre che del gas e dell'acqua), la compagnia che lavora coll'essenza della vita. Vorrei chiedere loro la storia di Bruno, ma ho paura che sia la madre e preferisco allontanarmi.

Nell colonnato di sinistra, su un epitaffio leggo: “Di rivedervi in ciel la speme avvivo”, anche se la scultura è tutta sporca e il tetto è lì che sta per crollare. È la tomba dove riposa la vacuità umana, che alza sculture anche se il tempo prima o poi le distruggerà; rappresenta meglio di tutte le altre la vanità della materia, penso, ma non posso fare a meno di essere dispiaciuta.
Arrivo alla tomba della famiglia Tomažič. Conosco le loro storie per via del romanzo di Fulvio Tomizza: Gli sposi di via Rossetti. Un gran romanzo che racconta la morte degli sposi, Dani e Stanko, in mezzo all'atmosfera nazionalista che ancora oggi tristemente si può riscontrare a Trieste, anche se per fortuna i tempi stanno cambiando e gli sloveni e gli italiani un po' alla volta convivono senza quelle tragiche rivalità.
I personaggi del romanzo non sono completamente sconosciuti per un triestino, non se aggiungiamo che Dani era figlia di Pepi, tuttora conosciuto per il buffet Da Pepi, dove si mangia la miglior porchetta della città. Lei e suo marito Stanko, appena tornato dal carcere dopo quattro anni di essere stato prigioniero politico sotto il regime fascista, furono assassinati a quanto pare dagli stessi connazionali che non la pensavano come lui, in modo così idealista.
Sulla tomba della famiglia di Dani ci sono i nomi, le date, le fotografie, quello che c'è in quasi tutte le tombe, solo che in questa due di loro sono anche personaggi di un romanzo, di un giallo davvero accaduto. Di fronte a quelle fotografie ho cercato di capire chi fosse Pino, il fratello della Dani anche lui ucciso, chi Stanko. L'unica scultura del mausoleo, che sembra di essere stata aggiunta dopo, reca il nome di Pino. Conoscendo la storia e la sua morte, sembra il busto di un martire comunista. La realtà dà la ragione alla finzione. Doveva succedere così. Il martire doveva essere in primo piano, gli amanti invece dovevano essere immortalati dalla letteratura.
Penso in Boris Pahor, lo scrittore triestino di origine slovena che oggi avrà un'ottantina di anni. Pahor era amico della coppia uccisa, e per quanto lascia capire Tomizza, forse anche più di un semplice amico della Dani... Ricordo la trama. Non sapevo che li avrei trovati qui. Non sono venuta a trovare loro, ma è sempre così: cerco qualcosa e finisco per trovare altro. 
Meglio andare avanti, penso.
Cammino attorno alle mura. Sento la necessità di andare in bagno. Corro fino all'ingresso principale, da dove sono entrata. Nella corsa ho visto il mausoleo dei Veneziani, la famiglia della moglie di Ettore Schmitz (lo scrittore più conosciuto come Italo Svevo). Dopo il bagno, prendo la stradina a sinistra dall'ingresso principale, faccio una ventina di metri, nel settore più vecchio del cimitero, e torno da lui. Spingo la porta. Il mausoleo è un piccolo rettangolo. All'inizio non sento nulla, dopo quasi piango. Sopra l'altare, accanto alla foto di Svevo c'è quello che non c'è sulla pietra dell'ingresso, nell'epiteto scritto dai familiari. C'è la fotografia di Svevo e accanto un ex voto lasciato da un lettore: una sigaretta rullata per Zeno (il carissimo e nevrotico personaggio di Svevo).
Dopo di Svevo cerco il poeta Umberto Saba. Non lo trovo da nessuna parte. Di solito, il poeta sa nascondersi bene. Ho dovuto chiedere al custode. Ha detto che è vicino a Svevo e mi ha dato un piano del cimitero. Si riconosce subito, non posso sbagliare: è rosa.
Torno da Svevo. Supero la tomba e il viale che attraversa la stradina e porta fino alla cappella. Poi, a metà del campo lo vedo. È a destra, tra le tombe più semplici, piene di fiori e fotografie. Saba è tra le tombe popolari. La sua lapida è un pezzo di pietra quadrato, alto circa tre metri, con un nome breve ma tagliante: Umberto Saba. Lo si vede da lontano, anche da un'orba come me.
Mi avvicino. Accanto a lui riposano Sacher (come la torta viennese) e una ventina di rastrellatori di bombe e mine. La lapida di Saba è divisa in due parti: due terzi sono di pietra grezza, ruvida come il Carso, la montagna alle spalle di Trieste, sembra di avere una ferita in mezzo, un fiume da dove partono i ruscelli; un terzo invece è liscio. Lì ci sono i numeri (1883-1957) e una scritta che ricorda la poesia alla donna che: “pianse e capì per tutti”. La sua donna e la sua figlia: Lina e Linuccia.
Avevo il Canzoniere con me. L'ho aperto a caso nella poesia Dopo una passeggiata. La leggo e sorrido: il caso a volte sa scegliere bene.

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