RITORNO NEL 2001- Agenzia delle Entrate- Trieste17/06/20, Buenos Aires- Ambasciata della Spagna 09/01
Lascio Tiziano nel Centro Estivo e parto in bici per l'Agenzia delle Entrate. Ho 5 ore per fare la commissione. Dimentico a casa la mascherina ma vado avanti e mi dico, da qualche parte troverò un negozio di cinesi che mi vendano un fazzoletto. Supero la stazione e quando sono quasi a Roiano mi accorgo che ho lasciato indietro i negozi dei cinesi. Tocca comprare una mascherina nella farmacia. E' lavabile, dice il farmacista e mi chiede 5 euri.
Nella Agenzia delle Entrate trovo una coda di 80 persone, forse di più.
Chiedo informazione sulla modalità d'ingresso al signore che ogni tanto si affaccia alla porta. Un suo compagno sta ripartendo i biglietti numerati.
Lo trovo a metà fila. L'impiegato chiede il motivo della visita e se rientra nei motivi plausibili da un biglietto.
Ho il numero 61. L'uomo estende il braccio come a dire, si accomodi.
Dalla fila vedo della gente che si accalca sull'ingresso, dove adesso l'uomo che forniva i biglietti e che dice di essere il direttore della filiale, parla con la gente.
Sento qualcuno dire che ci sarà un'oretta e mezzo da attendere.
Cerco di capire come procede la fila, il ritmo di ingresso, la modalità di chiamata.
Man mano che una o due persone escono, una signora con la giacca rossa esce e chiama i primi della fila.
Il biglietto non viene richiesto.
Informo a quelli che sono vicini a me. Dovremo organizzarci tra di noi, se qualcuno va a bere il caffè ci teniamo il posto, nessuno controlla i numeri all'ingresso.
I miei vicini di fila mi guardano perplessi, come se non capissero quello che dicevo, qualcuno fa spallucce come se non gli riguardasse. Tre abbandonano la fila, tre rimaniamo.
Trovo una di noi al bar, con il compagno di capelli bianchi che le porta la borsetta. Mi bevo anche io un caffè e torno in fila con loro. Non capisco se lei e prima o dopo di me.
Passano le ore. Una, due, tre.
Ogni tanto si alza una voce, qualcuno si lamenta, sopratutto gli anziani e i serbi.
Arriva una signora con una cartella mentre io smanetto con il telefonino per cercare di fare quello che devo fare online. La sento chiedere agli altri per sapere chi ha il numero 54. Arriva da me, e mi fa: La ga il 54? No, faccio. Ma la ga il numero? Certo, rispondo, infastidita.
Questa signora dovrà chiedermi il numero se vuole passare, mi dico. Insomma, tre ore in fila e arriva lei, splendida, a mettersi nella fila perché la sua collega è stata prima a prendere il numero. Eh, no.
Il corpo diventa sempre più pesante.
Arriva un uomo, di una quarantina, tutto vestito in verde militare. ha gli dolci e tranquilli.
Mi chiede il mio numero e con un che di fastidio rispondo. Sessantuno. Sono a cinque persone dell'ingresso e tranne per la volta che sono andata a prendere un caffè non ho molato il posto.
Il signore dice che lui ha il 54. Il problema è che all'ingresso non chiedono i numeri, dico io.
Va bene, dice lui, ma io sono prima di te.
E io sono qui da quattro ore ormai e sono rimasta appunto perché nessuno chiede il numero. Io ti faccio passare ma dovresti parlare con loro e non con me. Non è che io adesso chiedo a tutti quanti che numero hanno per venire a fare la fila.
La signora dietro di me che era arrivata chiedendomi il mio numero dice che lei ha il 55. Io ti avevo chiesto il tuo numero e tu non mi hai risposto, mi fa.
No, tu mi avevi chiesto se avevo il 54, e io ho risposto di no. Eri arrivata dopo tre ore che ero in fila.
Allora quelli con cui avevo parlato all'inizio e che avevo avvertito di come era la situazione, di un tratto si svegliano. Una ragazza che era sempre rimasta lì vicino, mi fa, ma tu non avevi il 61.
Si faccio io.
Io ho il 62. Va bene, mettiti nella fila.
Una voce di quello che era rimasto un po' lontano dalla fila e che all'inizio avevo alzato le spallucce come a dire chi se ne fotte, mi fa: non fare la furbetta che ti sto guardando. Io ho il 60 e tu non passi prima neanche se io devo restare per sempre qua.
Non c'è nessun problema. Passi. Ma devi metterti in fila. Io non farò il lavoro di controllare i numeri. Se vuoi puoi farlo tu.
Parla forte, arrabbiato.
Faccio io, dice e inizia a chiamare i numeri.
La gente discute. Quasi tutti capiscono lui e quasi quasi anche io lo capisco ma c'è qualcosa che ancora non mi va.
Di un tratto la signora che faceva entrare alla gente inizia a chiamare per numero.
Vedi che chiamano per numero, mi fa.
Prima non lo facevano, rispondo e una ragazza dice che è vero. Prima non chiamano per numero. Io sono una tranquilla, fa, posso stare qui ore e ore ad aspettare. Ma sai, ci si arrangia, si va a fumare un cicca, a bere un caffè, non possiamo stare qui tre ore a far nulla.
Anche io sono andata a bere un caffè ma poi sono tornata. Se ognuno va via per tanto allora non c'è più la fila.
No fare la furbetta, io tengo tutti qua sotto occhio mi sgrida l'uomo alto con i pantaloncini e le scarpe fluo, quello delle spallucce, e continua a dirmi, io ti ho vista, volevi andare avanti. All'inizio eri venuta a dirci cosa succedeva e poi...
Certo. Dico. Ma io sono rimasta sulla fila mentre altri sono andati tre ore via e dopo sono tornati per prendersi il loro posto...
Forse ha ragione lui, penso, e l'uomo degli occhi tranquilli mi fa: non è una scusa.
Allora mi accorgo quello che mi è successo. Sono tornata nell'inverno del 2001 quando facevo le file del consolato della Spagna cercando il visto per poter uscire del Paese. Dalle 4 del mattino con le sedie ad aspettare la chiamata del proprio numero. Ore ad aspettare la chiamata del proprio numero e se arrivava l'ora di chiusura del consolato e non era arrivato il tuo numero, dovevi tornare il giorno dopo.
Mi sono accorta cosa mi fosse successo. Io non sono una furbetta.
Io sono chisciotesca. Se devo mettere il corpo, allora lo metto e poi ne risento.
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