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Il Mito dello straniero

Ieri sera ero alla presentazione di un candidato per le prossime elezioni in un salottino triestino. Prima che il candidato parlasse ci siamo messi attorno al tavolo a stuzzicare e bere un calice. Avevo portato un po' di guacamole e un uomo accanto a me ha chiesto cosa fosse. Ho risposto e qualcuno ha aggiunto che avevamo cambiato la ricetta introducendo la variante dell'erba cipollina di Asiago.

- Ah! Sei straniera? -mi ha chiesto l'uomo col cucchiaio e una fetta di pane berlinese in mano.
Ho indugiato a rispondere due secondi. Due secondi e poi non so perché ho detto: No no, sono italiana.

Eravamo tutti un po' imbarazzati, come se la politica ormai non corresse più nelle nostre vene. C'è stato il rinfresco, poi silenzio, doveva parlare il candidato, e alla fine, qualcuno mi ha detto che c'era Paolo Rumiz. Quale è? ho chiesto e mi sono accorta che non poteva essere se non che lui. Infatti come si avesse una strana malattia, quasi nessuno gli rimaneva accanto per più di qualche minuto. Gli occhi blu mettevano soggezione, così intensi che sembravano di aver annegato più di una volta nel Mediterraneo.

Man mano ci siamo tutti messi in cucina a parlare, appoggiati contro la parete e sul vano della porta. Non sono riuscita a parlare con lui. Volevo solo ascoltarlo. Qualcuno gli ha chiesto se non aveva paura per via degli articoli che aveva scritto sulla cricca e il porto di Trieste. No, ha detto, ormai sono conosciuto, e poi quando gli hanno chiesto cosa farebbe lui col porto, ha detto, io lo darei in mano ad uno straniero.

Ecco, seconda volta in serata che compariva la figura quasi mitica dello straniero. Allora oggi mi sono svegliata pensando chi sarebbe questo, o meglio, chi sarebbero questi stranieri. Il primo, per intenderci quello del guacamole, sarebbe lo straniero nato in un altro Paese (in una cultura a noi strana, che parla una lingua diversa e mangia pietanze strambe, lo straniero comune, della massa); il secondo, invece, sarebbe lo straniero (forse europeo) che in qualche modo è più civilizzato, può gestire gli affari altrui e perciò può salvarci.

Tutti e due sarebbero, in qualche modo, una specie di extraterrestre. Ognuno di noi infatti lo è. Per diventare straniero basta solo lo sguardo di un altro, che nel bene o nel male ci guarda ci ascolta e poi si trova o non si ritrova insieme a noi, con noi.

Ma io ieri sera per la prima volta in vita mia ho detto, alla Gaber, io sono (mi sento) italiana. Non è scontato che essendo nata fuori l'Italia io mi senta italiana. Non dipende dal giorno in cui mi hanno dato la cittadinanza. Come diceva Borges, cosa vuole dire essere argentino, colombiano, italiano?
- È un atto di fede.
Niente di più.

io, Eleonora Bevilacqua

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